Sebbene il titolo di questo scritto possa apparire bizzarro a molti, credo che sia essenziale trattare questo argomento. I social media – Instagram in particolare – stanno diventando sempre più pervasivi nella nostra esistenza quotidiana: da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire una parte della nostra attenzione è sempre rivolta alle notifiche che ci potrebbero arrivare da un momento all’altro e la nostra curiosità ci spinge ad aprire suddetta notifica appena ne udiamo il fatidico dliing. Sui social media costruiamo relazioni, mostriamo la nostra vita e guardiamo quella degli altri in apparente libertà. Con 500 milioni di utenti attivi ogni giorno e 4.2 miliardi tra post, storie e altro, Instagram è di sicuro una delle piattaforme più utilizzate e su cui le cose “accadono”. Non si tratta quindi di uno studio su una fetta ristretta della popolazione, ma di un fenomeno globale al cui interno navigano persone di ogni nazione, cultura, genere e età.
È chiaro dunque che una piattaforma così capillare sia portatrice di pratiche e comportamenti – spesso inconsci – che è possibile analizzare da un punto di vista sociologico e antropologico in cui, certamente con qualche eccezione, è possibile scorgere una tendenza o un modus operandi innescati anche dal medium stesso.
Dunque, sebbene sia idea di molti che i rituali e le narrazioni mitiche stiano lentamente scomparendo dalla società, se non che siano già spariti, penso che, quali componenti necessari ad ogni sistema per esistere e funzionare, i social non possano esserne privi. Certamente evolutisi e trasformatisi rimangono comunque dei topoi conosciuti.
Dal mito, una narrazione, è generato il rito che ne è la sua perpetrazione attiva e attualizzante, secondo questa convinzione ho deciso di collegarli.
Per quanto riguarda il mito individuato all’interno della suddetta struttura vorrei porre l’attenzione sulla figura dell’influencer, nuovo divo della post-modernità che, a differenza degli dei delle religioni classiche o anche di quelli hollywoodiani, si trova a portata di mano: un divo low-cost, che ognuno può diventare contando solamente sulle proprie forze (si potrebbe anche chiamarli self-made divi). Questo pensiero, che agisce sotterraneo nella mente delle persone, affiora però nella normale attività social di ognuno: postando e mostrando le nostre vite ci convinciamo che i divi siamo noi e che gli altri siano lì per guardarci.
Riguardo alla componente rituale dei social, si trovano dei processi che stanno alla base della loro struttura e del loro funzionamento, si pensa all’atto di condividere un contenuto, azione che porta in sé l’affermazione della propria presenza nel mondo – certamente virtuale, ma spesso più reale della realtà – perché “se non sei su Instagram, per il mondo, non esisti”. E allora è possibile rubare a Cartesio per affermare la massima I share therefore I am, condivido quindi sono.
Sicuramente molti altri comportamenti e azioni che avvengono su Instagram, varrebbero la pena di essere analizzati, ma in questa sede – per motivi di spazio e tempo – ci si concentrerà su questi due, sperando di poterli sviscerare in modo soddisfacente.
1. La (falsa) scomparsa dei miti e il nuovo mito del self-made divo: io sono il mio divo
Credo sia d’obbligo iniziare con una premessa semantica: parlando di mito non si intenderà nella sua accezione comune di favola o illusione, ma nella concezione di Mircea Eliade, intellettuale poliedrico che ha dedicato parte dei suoi studi all’argomento, in cui il mito viene definito «vivente», nel senso che fornisce modelli per la condotta umana e conferisce, con ciò stesso, significato e valore all'esistenza[1].
Dunque il mito non è una spiegazione destinata a soddisfare una curiosità scientifica, come spesso si è interpretato nell’ottica positivista di una società tecnico-scientifica, ma un racconto che fa rivivere una realtà originaria e risponde a un profondo bisogno religioso, ad aspirazioni morali, a obblighi, ad imperativi di ordine sociale e anche ad esigenze pratiche – per parafrasare l’antropologo Malinowski. Infatti, come fa notare anche Cioffi, in una società come la nostra che cerca di spiegare e controllare la narrazione mitica attraverso il razionalismo scientifico, questa riemerge in epoca contemporanea dalle crepe di questa stessa narrazione attraverso, per esempio, gli spots pubblicitari e i film di fantascienza[2] e i social aggiungerei io, andando a creare un immaginario talmente ben radicato nei nostri inconsci che ci rende ignari dei meccanismi e processi che, proprio perché fondati su topoi archetipici e originari, cioè intrinsechi nell’essenza di essere umano, per scomodare anche Jung, funzionano così bene.
Dunque non solo la struttura mitica è presente nella società, ma le è necessaria per esistere e funzionare; dal momento che mito e rito sono strumenti di narrazione collettiva che fungono da collante per una comunità, è certo che questa stessa non può esistere senza i suddetti elementi, pena la sua disgregazione. La narrazione condivisa è un modo che ha una comunità di darsi delle regole senza darsele veramente perché queste sono condivise e accettate dalla maggioranza – se non da tutti – e senza che queste siano, in modo aperto, imposte dall’esterno perché frutto di tradizione di un sistema di valori. Quindi miti e riti non scompaiono, ma cambiano e si evolvono perché cambia e si evolve il sistema di valori e la struttura di una società e viceversa: infatti come afferma l’antropologo Victor Turner[3], i “giochi sociali” (cioè quei momenti dove, attraverso la non-serietà e la liminarità, è possibile un meta-commento sulla società) si riflettono – cioè influenzano e vengono a loro volta influenzati – sulla comunità che li partorisce[4].
Dunque se consideriamo che attualmente il nostro sistema di valori gira quasi esclusivamente attorno al “soldo” e alla sua (apparente) democraticità e meritocraticità è chiara l’ascesa nel novero delle divinità di persone che di speciale non hanno nulla se non la capacità e/o la fortuna di aver reso speciale la loro ordinarietà. Tutto ciò è stato reso possibile o comunque incrementato, a mio avviso, dai social network: per fare solo un piccolo esempio vorrei mettere a confronto le pubblicità degli anni ’90 in cui i testimonial erano prevalentemente personaggi riconosciuti, divi e modelli inarrivabili e le pubblicità odierne dove, invece, molto spesso i protagonisti sono persone “normali” e anonime, scelte per incentivare l’immedesimazione e attivare la convinzione che “il divo sei tu”.
La figura dell’influencer credo sia paradigmatica della società in cui ci troviamo: la sua popolarità affonda le radici nella convinzione capitalista dell’ascesa sociale possibile grazie soltanto alle proprie forze e alla propria capacità imprenditoriale, si parla del self-made man (gli antenati più recenti dell’influencer potrebbero essere quelli che nelle biografie di Facebook scrivevano “imprenditore presso me stesso”, aggiornando però il sapore anni ’90 di questa frase). L’influencer è una persona normale che mettendo in mostra compulsivamente le proprie inclinazioni e i propri comportamenti (da come si veste a cosa mangia a che locali frequenta) è riuscita a diventare virale, cioè è riuscita a creare dei contenuti considerati interessanti e degni di essere imitati, è riuscita a creare una tendenza o ad inserirvisi in modo originale. Questa figura è divenuta così importante da aver creato un nuovo tipo di lavoro (ovviamente un fenomeno così esteso e che riesce ad attirare su di sé così tanta attenzione non poteva rimanere fuori dal flusso di denaro) e il suo successo si basa proprio sulla presunta normalità del personaggio, creando la convinzione che tutti possano diventarlo, poiché ciò che viene spettacolarizzata è la propria realtà quotidiana e tutti ne hanno una. Questa concezione va a plasmare due comportamenti distinti e antitetici che però possono convivere nel medesimo user: l’insoddisfazione per la propria vita, vista come banale, noiosa, ordinaria, poco divertente o eccitante rispetto a quella degli altri o la convinzione che invece anche la propria vita sia similmente divertente e eccitante e quindi altrettanto degna di esistere, di essere mostrata e guardata. I due comportamenti si alternano in una bipolarità schizzata in cui l’uno genera l’altro, così che non appena succede qualcosa di eclatante, straordinario o anche semplicemente carino vince chi riesce a estrare più velocemente il cellulare e ad immortalare l’accaduto per mostrarlo subito al mondo.
Diversità dunque che paga e viene notata dacché sui social siamo invasi da immagini tutte uguali che ci annoiano – pur essendo lì il luogo in cui ci rivolgiamo nei tempi morti – e in cui, per ammazzare la monotonia, cerchiamo qualcosa che ci stupisca, ma che dopo pochi secondi ritorna di nuovo ad essere banale e già visto: è la prima volta che lo strano e il diverso vengono assunti come valori portanti da una società, se prima chi era diverso veniva emarginato dalla società o comunque non considerato come un modello da seguire, oggi la nostra noia perenne e insaziabile cerca una distrazione che si accompagna alla nostra brama di essere notati e finisce per culminare nella “sindrome del gobbo”, ossia nella ricerca di un’originalità a tutti i costi per emergere dalla marea montante dell’indifferenziato.
La forza dell’influencer sta nel saper trasvestire la propria normalità da originalità e diversità e di muoversi tra i due opposti in modo camaleontico, trasformista e illusorio per dare l’idea che la straordinarietà sia alla portata di tutti e innescando in ognuno il pensiero di essere eccezionale. L’incredibile trasparenza del mezzo social fa credere che venga premiata la diversità, tuttavia quella ad essere premiata è una diversità che non si rende scomoda, che non sconvolge e viene accettata all’istante e quindi in fondo profondamente standardizzata: sui social, come nel mondo, l’assunto modernista del nuovo che sconvolge e fa scalpore è diventato paradigma per cui ogni tentativo di uscire dal tracciato viene immediatamente inglobato e fagocitato perché proprio l’attitudine a uscire dal tracciato è diventata normalità. E quindi, se in superficie i social ci riempiono la testa di messaggi di auto-accettazione, nel profondo ci dicono di seguire un modello e con questo meccanismo subdolo ci convincono da una parte della falsità dei modelli e dall’altra di poterli raggiungere senza sforzo o ancora di poterlo essere noi.
L’idea che questi personaggi siano a portata di mano e la conseguenza de-mitizzazione del divo (infatti nessuno penserebbe mai di attaccarsi in camera un poster di Chiara Ferragni perché agisce il retro pensiero che “anche io potrei esserlo” mentre non potrei mai essere Beyoncé o David Bowie che possiedono capacità di cui sono privo) porta al meccanismo inverso, ossia la divinizzazione e la mitizzazione del Sé. Come Narciso abbiamo sviluppato un’attrazione morbosa per la nostra immagine, ma se per il personaggio del mito la contemplazione era di carattere intimo e personale, l’auto-contemplazione dell’uomo contemporaneo ha sempre un occhio rivolto all’esterno, allo sguardo degli altri sulla nostra immagine: essa è diventata pubblica, anzi più pubblica è e più valore ha, farsi un selfie per conservarlo come memoria non è contemplabile, anzi è proprio un non-senso.
Le pagine Instagram di sempre più persone stanno perdendo anche il carattere di spettacolarizzazione della propria vita per concentrarsi strettamente sulla persona; e così le foto con gli amici, i tramonti spettacolari su mari cristallini e azzurri, le foto dei piatti da ristorante composti per essere fotografati diventano sfondo o spariscono del tutto per lasciare spazio assoluto all’individuo egotico creando delle liste infinite di immagini in cui ci si fotografa e si viene fotografati in tutte le situazioni possibili, ma in fondo sempre uguali, spesso con la stessa espressione e la stessa posa, quella in cui appariamo più belli e desiderabili.
Questo comportamento ha delle ricadute nel mondo reale (e viceversa) in cui vengono adottate le stesse dinamiche – forse perché non sappiamo più fare altrimenti: disinteresse verso l’altro e eccessivo interesse per se stessi come modello di comportamento che prende sempre più piede.
2. La (falsa) scomparsa del rito e la condivisione social come nuova ritualità: I share therefore I am
Riguardo ai riti le premesse sono simili: non può esistere una società senza riti condivisi perché essi fungono da collante sociale e da rappresentazioni dell’ordine sociale collocando un individuo in una “parte”, in un ruolo definito all’interno di una comunità.
Un rito si configura come un’attività simbolica ripetitiva e ripetuta, codificata ed efficace (perché modifica l’individuo che ne prende parte) che si presenta con le caratteristiche del dramma[5] nel suo significato etimologico – da δράω, fare – e che dunque presuppone in sé un’azione, un atto performativo. “Il termine performance deriva dall’antico francese parfournir che significa letteralmente ‘fornire completamente o esaurientemente’. To perform significa quindi produrre qualcosa, portare a compimento qualcosa, o eseguire un dramma, un ordine o un progetto. Ma nel corso della ‘esecuzione’ si può generare qualcosa di nuovo. La performance trasforma se stessa. Le regole possono ‘incorniciarla’, ma il ‘flusso’ dell’azione e dell’interazione entro questa cornice può portare ad intuizioni senza precedenti e anche generare simboli e significati nuovi, incorporabili in performance successive. E’ possibile che le cornici tradizionali vadano sostituite: nuove bottiglie per il vino nuovo.”[6] Quindi il rito, in quanto atto performativo, porta in sé una trasformazione di se stesso e della società che lo genera. Tuttavia, mentre nelle società tradizionali il rito si inscriveva in uno spazio di estrema serietà, venendo considerato come lavoro sociale alla stessa stregua di quello produttivo e di conseguenza la sua libertà trasformativa e di sovvertimento aveva comunque regole rigide, nelle società moderne avviene una frattura strutturale tra momento serio di lavoro di produzione “utile” e momento di libero sfogo del gioco, momenti anti-strutturali di invenzione sociale: la modernità ha inventato il tempo libero[7]. È quindi nel tempo libero che oggi avvengono queste performance trasformative della società (Turner sottolinea come la meta-critica della società sia stata lasciata gradualmente al dominio delle arti e al teatro in particolare come vero e proprio dramma[8]) ed è proprio in questo frangente che il rito, in particolare quello di passaggio, cambia il suo carattere da liminare a liminoide.
L’antropologo Arnold Van Gennep nella sua opera Les rites des passages, individua tre fasi di uno schema che si presenta inalterato in questo tipo di riti: separazione, transizione e reintegrazione. Nella prima fase l'individuo viene separato dal contesto in cui si trova (es. l'individuo viene mascherato e portato nella foresta), nella seconda attraversa un passaggio simbolico che rappresenta il culmine della cerimonia (ad esempio affronta una prova), nella terza viene reintegrato alla sua esistenza con un nuovo status sociale.[9] Il passaggio di transizione è detto liminare (da limen, confine) perché limbo, stato di passaggio e trasformazione da una condizione a un’altra. “Il liminoide (l’‘oide’ qui deriva dal greco –eidos, forma, modello, e significa ‘rassomigliare a’) assomiglia quindi al liminale senza essere identico ad esso: per il suo carattere di possibilità trasformatrice, per essere il regno del congiuntivo e non dell’indicativo e per essere il non-luogo in cui è possibile giocare con i simboli e le appartenenze culturali cristallizzate, dando vita a combinazioni inusuali minando alle fondamenta il familiare.”[10]“Secondo Turner, ciò che differenzia il liminoide dal liminale è la componente maggiormente libera e spontanea dei generi liminoidi nelle società complesse occidentali, ed il fatto che determinate pratiche sono una questione di scelta e non di obbligo. Mentre all’interno dei rituali liminali di una società tribale si tende ad invertire ma non a sovvertire lo status quo, vivendo all’interno di un disordine comunque istituzionalizzato e a cui partecipa tutta la collettività (per esempio durante l’iniziazione si devono infrangere determinate regole), nell’ambito dei generi liminoidi si tende spesso a sovvertire oppure a corrodere i valori centrali normativizzati su cui si basa la società secondo il libero arbitrio individuale.”[11]
Torniamo ora al concetto di riflessività di queste performance sociali: Turner afferma che “rappresentando, l’uomo si rivela a se stesso”[12] ossia si rappresenta per conoscersi meglio ed è proprio questo che sui social scompare. L’uomo, o meglio il giovane uomo, rappresentandosi sui social (attraverso un selfie o il piatto che sta mangiando) non lo fa per comprendersi meglio, ma per presentare[13] al mondo quello che vorrebbe essere e non quello che è. Ed ecco che il carattere congiuntivo della fase liminale, sui social potrebbe diventare condizionale, non più solo nel regno della possibilità, ma in quello del desiderio e dell’aspirazione. Rimanendo su un piano di superficie, l’user dei social network si costruisce una vetrina in cui è apparentemente nudo sotto lo sguardo indagatore dell’Altro, ma in realtà è come deformato da una quantità di specchi da casa degli orrori. Se prima della democratizzazione e popolarizzazione del mezzo fotografico la foto, e più in particolare il ritratto, miravano a cogliere ciò che era nascosto in profondità, l’essenza di un soggetto, la sua verità, adesso il primo pensiero del soggetto che si trova “puntato” va subito al risultato dello scatto e la preoccupazione è quella di “venire bene”, di apparire come la versione migliore di se stessi, tutto in favore di un’estetica standardizzata e a scapito assoluto della verità – che anzi non è nemmeno più considerata come un valore, ma un disturbo: la verità è dozzinale e imperfetta. Se quindi prima poteva essere vero che uno scatto aveva il potere di “rubare l’anima”, adesso la cela, se prima era la cornice a doversi adattare al soggetto, ora è il soggetto – che diventa così oggetto – a dover entrare in un rettangolo prestabilito.
Inoltre sui social media viene intaccato l’ordine di queste performance che da sociali e collettive assumono un carattere individuale e personale che però per mantenere l’efficacia e attecchire si ammanta di quel carattere collettivo che è profondamente assente: i social vengono visti come comunità di interazioni e scambi reciproci in cui non vengo solo guardato, ma guardo anche gli altri; eppure questa relazione è apparente dal momento che il vero rapporto lo costruisco in solitudine, è il corpo dell’altro che viene a mancare e la relazione la costruisco con me stesso, o al massimo con il mio telefono. Dunque in una società dove sono cadute le divisioni tra attore e pubblico[14] l’Io è spaccato, costretto a dover interpretare entrambe le parti, ad essere contemporaneamente oggetto e soggetto, richiesta impossibile che ha come conseguenza la caduta del pubblico e il trionfo dell’egemonia assoluta della parte di attore, l’Altro scompare per lasciare posto a tanti Io gonfiati che rimangono tali e non diventano mai Noi: l’individuo rimane tale pur costruendo “amicizie” (che non a caso su Instagram, a differenza di Facebook, si chiamano followers, termine tradotto in italiano con l’inquietante “seguaci” che ha sapore di setta più che di comunità).
In questo quadro si colloca il rito della condivisione, o dello sharing, motore attivo del social network. È possibile identificare lo sharing nell’universo social come un atto di nascita, un’affermazione di presenza e una conferma di esistenza: condivido quindi sono. L’atto di condividere si inscrive in quel tipo di riti eseguiti per “contrassegnare e effettuare la transizione dall’invisibilità alla visibilità sociale”[15], perché se non sei sui social, non esisti o almeno non per gli altri, ma è proprio dagli altri che viene il nostro riconoscimento come autocoscienze (come insegna Hegel nella sua Fenomenologia). Quello che è cambiato però è la quantità e l’estensione del potere di riconoscimento che deleghiamo all’Altro: esso non può più venire da una cerchia intima – per quanto estesa, ristretta rispetto al livello planetario dei social – ma deve venire da una considerevole porzione di popolazione, inoltre è aumentato esponenzialmente il bisogno di approvazione e la considerazione di risposta e giudizio sulla nostra figura e su quello che facciamo.
Nell’atto del condividere è possibile ritrovare inoltre le stesse tre fasi individuate nei riti di passaggio che abbiamo citato sopra: separazione, transizione e reintegrazione. Quando io mi faccio un selfie la mia immagine – che deve corrispondere al mio desiderio non alla mia verità – si stacca da me e io mi stacco da essa, diventiamo due entità separate, per di più questa foto non è fatta per bloccare un ricordo, per diventare memoria, il suo unico scopo è quello di essere condivisa. È così che entriamo nella fase di transizione, la fase liminare cioè il suo postaggio e l’eventuale modifica: in questo momento la mia immagine non è più in mio possesso e neanche in possesso del mondo, ma si trova in un limbo di possibilità ancora tutte aperte in cui il mio personaggio si sta formando (nelle società tradizionali ci si travestiva con pelli di animali, ora si applicano dei filtri che distorcono o abbelliscono la nostra apparenza) ed è quasi pronto per essere lanciato e diventare mondo, per essere reintegrato nella realtà. In questo processo io vengo cambiato, la mia immagine viene cambiata, la mia immagine trasforma me e viceversa. Postare una foto dunque è un processo dialettico, obverso[16], un’affermazione di presenza necessaria, ma paradossale perché cosa c’è di meno reale del virtuale? Eppure stiamo andando nella direzione in cui ciò che accade in rete, online sarà più reale della realtà, andando oltre il corpo oramai superfluo e imperfetto questo è ciò che ci aspetta.
Bibliografia
Bazzichelli, Tatiana. 2006. Networking. La rete come arte. Genova: Costa & Nolan.
Cioffi, Antonio. 1988. La cinepresa di Arianna. Parma: Edizioni all'insegna del Veltro.
Eliade, Mircea. 1966. Mito e Realtà. Torino: Boria.
Gennep, Arnold Van. 2012. I riti di passaggio. Torino: Bollati Boringhieri.
Senaldi, Marco. 2020. Obversione. Media e disidentità. Milano: Postmedia Books.
Turner, Victor. 1993. Antropologia della performance. Bologna: Il Mulino.
—. 2014. Dal rito al teatro. Bologna: Il Mulino.
[1] Eliade, Mircea. 1966. Mito e Realtà. Torino: Boria. p.24
[2] Cioffi, Antonio. 1988. La cinepresa di Arianna. Parma: Edizioni all'insegna del Veltro.
[3] esponente della “scuola di Manchester” in cui viene data rilevanza alla componente trasformativa e conflittuale dei processi sociali
[4] Turner, Victor. 1993. Antropologia della performance. Bologna: Il Mulino.
5 Ibid. Quasi tutto il lavoro di Turner si basa sul concetto di dramma sociale, che egli definisce come rottura di una norma, come infrazione di una regola della morale, della legge, del costume o dell’etichetta in qualche circostanza pubblica. Questa rottura, una volta comparsa, non può essere cancellata e produce delle fazioni antagoniste da cui si generano punti di svolta nell’evoluzione della società – si pensi per esempio al ’68.
[6] Bazzichelli, Tatiana. 2006. Networking. La rete come arte. Genova: Costa & Nolan.
[7] Turner, Victor. 1993. Antropologia della performance. Bologna: Il Mulino. La separazione di questi due momenti è anche dovuta all’accelerazione e all’alienazione dei tempi di lavoro in fabbrica e alla conseguente necessità di evasione.
[8] Turner Victor, 2014. Dal rito al teatro. Bologna: Il Mulino.
[9] Van Gennep, Arnold. 2012. I riti di passaggio. Torino: Bollati Boringhieri.
[10] Bazzichelli, Tatiana. 2006. Networking. La rete come arte. Genova: Costa & Nolan.
[11] Ibid.
[12] Turner, Victor. 1993. Antropologia della performance. Bologna: Il Mulino. P. 158
[13] Inquietante somiglianza con il linguaggio dell’arte contemporanea
[14] Si veda anche nelle performances di arte contemporanea come ad esempio quelle di Marina Abramovich
[15] A. Van Gennep citato in Turner, Victor. 1993. Antropologia della performance. Bologna: Il Mulino. P. 188, corsivo mio
[16] Senaldi, Marco. 2020. Obversione. Media e disidentità. Milano: Postmedia Books.