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La Governance economica globale: un'analisi critica


Nel suo monumentale "Il Governo economico del Mondo: 1933-2023", Martin Daunton costruisce un'opera che rappresenta molto più di una semplice cronaca storica della governance economica globale. La sua tesi centrale - che le istituzioni economiche globali oscillano costantemente tra la necessità di cooperazione internazionale e le pressioni degli interessi nazionali - si rivela come un prisma attraverso il quale possiamo comprendere non solo il passato, ma anche le sfide contemporanee dell'economia globale. Daunton traccia questo conflitto fondamentale attraverso molteplici crisi, innovazioni istituzionali e cambiamenti di paradigma, dimostrando come questa tensione sia una caratteristica intrinseca e permanente del sistema economico internazionale. La sua analisi si estende ben oltre la semplice documentazione storica, offrendo intuizioni profonde sulla natura stessa della cooperazione economica internazionale e sui limiti strutturali che essa incontra. Questo lavoro si distingue particolarmente per la sua capacità di connettere eventi apparentemente disparati in una narrativa coerente che rivela i pattern ricorrenti nella storia economica globale.



La tensione fondamentale tra globalismo e nazionalismo economico, che Daunton identifica come il filo conduttore della sua analisi, trova le sue radici teoriche nel lavoro seminale di Karl Polanyi, "La Grande Trasformazione". Polanyi aveva identificato quello che chiamava il "doppio movimento": l'espansione delle forze di mercato da un lato e l'emergere di meccanismi di protezione sociale dall'altro. Questa dialettica, lungi dall'essere superata, si manifesta oggi in forme nuove e più complesse. La globalizzazione contemporanea ha intensificato questa dinamica, creando quello che Dani Rodrik ha definito il "trilemma della globalizzazione": l'impossibilità di mantenere simultaneamente democrazia politica, sovranità nazionale e integrazione economica profonda. Le tensioni commerciali, le crisi finanziarie e l'emergere di movimenti populisti possono essere visti come manifestazioni contemporanee di questo conflitto fondamentale. La visione di Daunton si allinea con questa tradizione di pensiero critico, ma la arricchisce con un'analisi dettagliata di come queste tensioni si sono manifestate attraverso le istituzioni economiche del XX e XXI secolo.

L'emergere del "liberalismo incorporato" nel dopoguerra, concetto sviluppato da John Ruggie, rappresentava un tentativo consapevole di riconciliare queste forze contrastanti. Il sistema di Bretton Woods non era semplicemente un insieme di accordi tecnici sulla gestione delle valute e del commercio internazionale, ma rappresentava un progetto politico più ampio che cercava di bilanciare l'apertura internazionale con l'autonomia nazionale. Questo compromesso si basava su tre pilastri fondamentali: tassi di cambio fissi ma aggiustabili, controlli sui movimenti di capitale e politiche nazionali di welfare state. Il successo di questo sistema nel produrre quella che è stata chiamata l'"età dell'oro del capitalismo" dimostra la possibilità di trovare equilibri funzionali tra le esigenze contrastanti della globalizzazione e della sovranità nazionale. Tuttavia, come Daunton dimostra dettagliatamente, questo equilibrio era intrinsecamente instabile e conteneva i semi della propria dissoluzione. La crescente mobilità del capitale, le pressioni inflazionistiche degli anni '60 e '70 e l'emergere di nuovi centri di potere economico avrebbero alla fine eroso le basi di questo compromesso. La crisi degli anni '70 e l'ascesa del neoliberismo segnarono una rottura fondamentale con il modello del liberalismo incorporato. Come ha magistralmente argomentato David Harvey nel suo "Breve storia del neoliberismo", questa transizione non fu semplicemente una risposta tecnica ai problemi economici del periodo, ma rappresentò una profonda riconfigurazione del rapporto tra stato e mercato. La stagflazione degli anni '70 fornì il pretesto per un attacco sistematico alle istituzioni del welfare state e ai meccanismi di regolamentazione economica sviluppati nel dopoguerra. Le politiche di Reagan e Thatcher, spesso presentate come inevitabili risposte tecniche a problemi economici, erano in realtà espressione di un progetto politico più ampio che mirava a ristabilire il potere di classe delle élite economiche. Questo processo fu facilitato dall'emergere di nuove teorie economiche, in particolare il monetarismo di Milton Friedman e la scuola delle aspettative razionali, che fornirono la giustificazione intellettuale per il smantellamento del sistema di Bretton Woods. La deregolamentazione finanziaria, la privatizzazione delle imprese pubbliche e l'attacco al potere sindacale furono elementi chiave di questa trasformazione, che ebbe profonde conseguenze sulla struttura dell'economia globale.


Le conseguenze dell'svolta neoliberista sono state profonde e durature, estendendosi ben oltre la sfera economica per toccare quasi ogni aspetto della vita sociale e politica. L'aumento della disuguaglianza globale, documentato in modo esaustivo da Thomas Piketty in "Il Capitale nel XXI secolo", non è stato un effetto collaterale accidentale ma una conseguenza strutturale delle politiche neoliberiste. La concentrazione della ricchezza e del reddito ha raggiunto livelli paragonabili a quelli dell'età dell'oro del capitalismo pre-1914, invertendo decenni di tendenze egualitarie del dopoguerra. Questo processo è stato accelerato dalla globalizzazione finanziaria, che ha permesso una mobilità senza precedenti del capitale e ha creato nuove opportunità di arbitraggio fiscale e regolamentare. Joseph Stiglitz ha evidenziato come la deregolamentazione finanziaria abbia creato un sistema di "socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti", dove i rischi sistemici vengono assunti dalla società nel suo complesso mentre i benefici rimangono concentrati nelle mani di pochi. Questa dinamica è stata particolarmente evidente durante la crisi finanziaria del 2008, quando i governi sono stati costretti a intervenire massicciamente per salvare il sistema finanziario, mentre le conseguenze sociali della crisi sono state largamente sopportate dalle classi medie e lavoratrici.


La globalizzazione finanziaria, accelerata dalla deregolamentazione degli anni '80 e '90, ha creato un sistema economico globale caratterizzato da una maggiore interconnessione ma anche da nuove forme di vulnerabilità sistemica. L'intuizione fondamentale di Hyman Minsky sulla natura intrinsecamente instabile dei mercati finanziari si è rivelata profetica: periodi di stabilità generano comportamenti che portano all'instabilità attraverso l'accumulo progressivo di rischi e l'innovazione finanziaria. La creazione di strumenti finanziari sempre più complessi, combinata con l'interconnessione globale dei mercati, ha generato quello che il sociologo Ulrich Beck ha chiamato una "società del rischio" globale, dove le crisi finanziarie possono propagarsi rapidamente attraverso i confini nazionali con effetti devastanti. L'architettura istituzionale creata a Bretton Woods si è rivelata inadeguata per gestire questi nuovi rischi, mentre le istituzioni che avrebbero dovuto sostituirla - come il Financial Stability Board - si sono dimostrate troppo deboli o troppo limitate nel loro mandato per prevenire efficacemente le crisi sistemiche.


L'ascesa della Cina ha introdotto una nuova e fondamentale dimensione nella governance economica globale, sfidando molte delle assunzioni su cui si basava il consenso neoliberista. Il "capitalismo di stato" cinese, come analizzato da Branko Milanović nel suo "Capitalismo contro Capitalismo", rappresenta un modello alternativo che combina un forte ruolo dello stato nell'economia con meccanismi di mercato. Questo modello ha dimostrato una notevole capacità di generare crescita economica e ridurre la povertà, pur mantenendo un controllo politico centralizzato. L'iniziativa Belt and Road e la creazione di nuove istituzioni finanziarie come la Asian Infrastructure Investment Bank rappresentano tentativi da parte della Cina di creare strutture parallele di governance economica globale, sfidando l'egemonia delle istituzioni di Bretton Woods. Questa sfida va oltre la semplice competizione economica, toccando questioni fondamentali sulla natura del capitalismo e sul ruolo dello stato nell'economia.


La crisi climatica rappresenta forse la sfida più significativa per il sistema di governance economica globale, mettendo in luce i limiti fondamentali delle attuali istituzioni e dei meccanismi di coordinamento internazionale. Nicholas Stern, nel suo influente "Rapporto Stern", ha definito il cambiamento climatico come "il più grande fallimento del mercato che il mondo abbia mai visto", evidenziando come i meccanismi di prezzo convenzionali siano inadeguati per gestire esternalità negative di questa portata. La necessità di una risposta coordinata a livello globale si scontra con gli interessi nazionali a breve termine e con quello che William Nordhaus ha chiamato il "problema del free-rider" nell'azione climatica. Gli Accordi di Parigi del 2015, pur rappresentando un importante passo avanti, hanno evidenziato i limiti dell'attuale architettura di governance globale: gli impegni volontari dei singoli paesi (NDC - Nationally Determined Contributions) si sono rivelati insufficienti per raggiungere gli obiettivi climatici concordati. Mariana Mazzucato ha sottolineato la necessità di un nuovo approccio alla politica industriale verde, che vada oltre i semplici meccanismi di mercato per includere un ruolo attivo dello stato nella direzione dell'innovazione tecnologica e nella trasformazione dei sistemi produttivi.


La pandemia di COVID-19 ha esposto in modo drammatico le vulnerabilità del sistema economico globale e i limiti della cooperazione internazionale in momenti di crisi. Come ha osservato Adam Tooze in "Shutdown", la risposta alla pandemia ha rivelato sia la profonda interconnessione dell'economia globale sia la persistente importanza degli stati nazionali come unità fondamentali di azione politica ed economica. Le interruzioni nelle catene di approvvigionamento globali hanno messo in discussione i principi di efficienza e specializzazione che avevano guidato la globalizzazione negli ultimi decenni. Il concetto di "resilienza" è emerso come alternativa all'efficienza pura, portando a un ripensamento delle catene del valore globali e delle dipendenze strategiche. La distribuzione diseguale dei vaccini tra paesi ricchi e poveri ha evidenziato le persistenti disuguaglianze nel sistema economico globale, mentre le diverse capacità degli stati di sostenere le proprie economie durante la crisi hanno accentuato le divergenze economiche preesistenti. Dani Rodrik ha sottolineato come la pandemia abbia accelerato tendenze già in atto verso una "slowbalization" o deglobalizzazione selettiva.


L'emergere di movimenti populisti in molte economie avanzate può essere interpretato come una reazione alle disuguaglianze e alle disruzioni generate dal sistema economico globale neoliberista. Il "trilemma politico" identificato da Dani Rodrik - l'impossibilità di conciliare pienamente democrazia, sovranità nazionale e iperglobalizzazione - ha trovato espressione concreta nei movimenti populisti che hanno sfidato il consenso globalista degli ultimi decenni. Eventi come Brexit e l'elezione di Trump negli Stati Uniti hanno segnalato un profondo malessere con gli effetti distributivi della globalizzazione. Wolfgang Streeck ha analizzato questa tendenza come parte di una più ampia crisi del "capitalismo democratico", evidenziando le tensioni crescenti tra le esigenze dei mercati globali e le aspettative democratiche dei cittadini. Mark Blyth ha sottolineato come le politiche di austerità post-2008 abbiano contribuito a alimentare questo malcontento, creando le condizioni per l'emergere di alternative politiche anti-establishment.





La questione della regolamentazione finanziaria globale rimane uno dei nodi più complessi della governance economica contemporanea. Le riforme post-2008, sebbene significative, non hanno affrontato le vulnerabilità fondamentali del sistema finanziario globale identificate da economisti come Joseph Stiglitz e Paul Krugman. Gli Accordi di Basilea III, pur avendo rafforzato i requisiti di capitale delle banche, non hanno risolto il problema delle istituzioni "too big to fail" e hanno lasciato largamente non regolamentato il sistema bancario ombra. La crescita della finanza digitale e delle criptovalute ha introdotto nuove sfide regolamentari che le attuali istituzioni faticano a gestire. Come ha evidenziato Katharina Pistor nel suo "The Code of Capital", il sistema finanziario globale continua a essere caratterizzato da asimmetrie fondamentali nel modo in cui il diritto codifica e protegge la ricchezza. La mancanza di un'autorità globale di regolamentazione finanziaria efficace rimane un punto debole cruciale del sistema, come sottolineato da Barry Eichengreen. Il ruolo delle istituzioni multilaterali sta attraversando una profonda trasformazione in risposta alle sfide del XXI secolo. La Banca Mondiale e il FMI, nati dagli accordi di Bretton Woods, hanno dovuto adattarsi a un mondo multipolare caratterizzato da nuovi centri di potere economico e da sfide globali sempre più complesse. Come ha evidenziato Ngaire Woods in "The Politics of Global Regulation", queste istituzioni faticano a mantenere la loro legittimità e efficacia in un contesto dove il potere economico è sempre più diffuso e le sfide politiche sempre più intricate. La riforma delle quote di voto nel FMI del 2010, che ha aumentato il peso delle economie emergenti, rappresenta un tentativo tardivo di adeguare la governance di queste istituzioni alla nuova realtà economica globale. Tuttavia, come sottolinea Robert Wade, permane un significativo divario tra il peso economico reale dei paesi emergenti e la loro rappresentanza nelle istituzioni di Bretton Woods. La creazione di istituzioni alternative come la New Development Bank dei BRICS e la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) riflette questa frustrazione e segnala l'emergere di un ordine economico internazionale più frammentato e policentrico. Inoltre, il ruolo tradizionale di queste istituzioni è stato messo in discussione dalla crescente importanza di attori non statali e reti transnazionali di regolamentazione, come analizzato da Anne-Marie Slaughter.


L'emergere di nuove tecnologie, in particolare la digitalizzazione dell'economia, sta ridefinendo radicalmente i parametri della governance economica globale. La rivoluzione digitale ha creato nuove forme di valore economico che sfuggono alle tradizionali categorie di analisi e regolamentazione. Shoshana Zuboff, nel suo "Il capitalismo della sorveglianza", ha evidenziato come le grandi piattaforme tecnologiche stiano creando nuove forme di potere economico che trascendono i confini nazionali e sfidano i tradizionali meccanismi di regolamentazione. La questione della tassazione dell'economia digitale, come analizzato da Gabriel Zucman, evidenzia i limiti dei sistemi fiscali nazionali in un'economia sempre più dematerializzata. L'emergere delle criptovalute e della finanza decentralizzata (DeFi) rappresenta una sfida ulteriore per le autorità monetarie e di regolamentazione finanziaria. Come sottolineato da Eswar Prasad in "The Future of Money", queste innovazioni potrebbero portare a una profonda riconfigurazione del sistema monetario internazionale. Le tensioni geopolitiche attorno al controllo delle tecnologie critiche, evidenti nel caso del 5G e dei semiconduttori, segnalano inoltre l'emergere di quello che Henry Farrell e Abraham Newman hanno definito come "weaponized interdependence" - l'uso strategico delle reti globali per esercitare potere economico.


La questione della tassazione globale delle multinazionali evidenzia in modo particolarmente chiaro le difficoltà di coordinamento internazionale nell'era della globalizzazione digitale. Gli sforzi recenti dell'OCSE per stabilire un'aliquota minima globale sulle società (il cosiddetto "pilastro due") rappresentano un tentativo ambizioso di contrastare l'erosione della base imponibile e il trasferimento dei profitti (BEPS). Thomas Piketty e Emmanuel Saez hanno dimostrato come l'evasione fiscale delle multinazionali attraverso i paradisi fiscali abbia contribuito significativamente all'aumento delle disuguaglianze globali. Gabriel Zucman ha stimato che circa il 40% dei profitti delle multinazionali viene artificialmente spostato verso paradisi fiscali, privando i paesi di risorse essenziali per il finanziamento dei beni pubblici. La complessità di questo problema è ulteriormente aumentata dall'emergere dell'economia digitale, dove il valore viene creato in modi che sfidano i tradizionali concetti di presenza fisica e fonte del reddito. Il recente accordo globale sulla tassazione minima delle società, sebbene rappresenti un passo avanti significativo, evidenzia anche i limiti della cooperazione internazionale in un mondo caratterizzato da forti interessi nazionali divergenti e da una crescente competizione geopolitica.


Il commercio internazionale sta attraversando una fase di profonda trasformazione, caratterizzata da quello che Richard Baldwin ha definito la "grande convergenza" - l'emergere di nuove forme di globalizzazione basate su catene del valore globali e flussi di dati e servizi. La pandemia di COVID-19 e le crescenti tensioni geopolitiche hanno accelerato il ripensamento delle catene di approvvigionamento globali, portando a quello che alcuni analisti hanno definito come "friend-shoring" o "near-shoring". Susan Strange aveva già anticipato nei suoi lavori come il potere strutturale nelle relazioni economiche internazionali fosse sempre più legato al controllo delle reti e delle infrastrutture critiche piuttosto che al tradizionale commercio di beni. Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, analizzate in dettaglio da Branko Milanović, riflettono non solo conflitti commerciali tradizionali ma una più profonda competizione per il controllo delle tecnologie e degli standard del futuro. Il sistema commerciale multilaterale, incarnato nell'OMC, si trova in una profonda crisi, con il suo meccanismo di risoluzione delle controversie paralizzato e una crescente tendenza verso accordi commerciali bilaterali e regionali. La governance dei beni comuni globali rappresenta una delle sfide più complesse per il sistema economico internazionale contemporaneo. Il lavoro pionieristico di Elinor Ostrom sui commons ha dimostrato che la gestione efficace dei beni comuni richiede istituzioni policentriche che operano a diversi livelli di governance. Questo insight è particolarmente rilevante per le sfide globali contemporanee come il cambiamento climatico, la gestione degli oceani e dello spazio orbitale. Charlotte Streck ha evidenziato come i regimi di governance ambientale globale siano caratterizzati da una "architettura complessa" che combina accordi multilaterali, iniziative transnazionali e azioni locali. Il concetto di "planetary boundaries" sviluppato da Johan Rockström e colleghi sottolinea l'urgenza di sviluppare sistemi di governance efficaci per gestire i limiti biofisici del pianeta. Kate Raworth, nel suo modello della "economia della ciambella", ha proposto un framework per riconciliare i limiti planetari con le esigenze di sviluppo sociale. La gestione dei global commons è ulteriormente complicata dall'emergere di nuove frontiere tecnologiche, come evidenziato dal dibattito sulla governance dell'intelligenza artificiale e della geoingegneria. Scott Barrett ha analizzato come la struttura degli incentivi nelle negoziazioni ambientali globali spesso ostacoli il raggiungimento di accordi efficaci, suggerendo la necessità di nuovi approcci alla cooperazione internazionale che vadano oltre il modello tradizionale dei trattati multilaterali.


Le disuguaglianze di genere nella governance economica globale rappresentano una dimensione critica spesso trascurata nelle analisi mainstream. Jayati Ghosh ha documentato come le politiche macroeconomiche e gli accordi commerciali internazionali abbiano spesso impatti differenziati su uomini e donne, perpetuando e talvolta aggravando le disuguaglianze di genere esistenti. Diane Elson ha sviluppato il concetto di "gender budgeting" come strumento per analizzare e correggere questi bias nelle politiche economiche. La letteratura femminista sulla governance economica globale, sviluppata da studiose come J.K. Gibson-Graham, ha evidenziato come le strutture di potere esistenti riflettano e riproducano gerarchie di genere. Il lavoro di Naila Kabeer sulle catene globali del valore ha mostrato come la globalizzazione economica abbia creato nuove opportunità ma anche nuove forme di sfruttamento per le donne nei paesi in via di sviluppo. La sottorappresentazione delle donne nelle istituzioni di governance economica globale, documentata da Virginia Hawkins-Gismondi, rimane un problema significativo nonostante alcuni progressi recenti. La pandemia di COVID-19 ha ulteriormente evidenziato queste disuguaglianze, con le donne che hanno sopportato in modo sproporzionato il peso della crisi economica e sanitaria, come analizzato in dettaglio da Branko Milanović e Stephanie Seguino.


La questione del debito sovrano continua a plasmare in modo fondamentale le relazioni economiche internazionali, come evidenziato dalle ricorrenti crisi del debito nei paesi in via di sviluppo e, più recentemente, dalle tensioni sul debito pubblico nelle economie avanzate. Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno documentato la lunga storia delle crisi del debito sovrano, evidenziando i pattern ricorrenti di boom, bust e default. Barry Eichengreen ha analizzato come l'architettura finanziaria internazionale post-Bretton Woods manchi di meccanismi efficaci per la ristrutturazione ordinata del debito sovrano. Le iniziative recenti come il Common Framework for Debt Treatments del G20 hanno mostrato i limiti della cooperazione internazionale in questo ambito, particolarmente evidenti nel contesto della crescente importanza della Cina come creditore globale. Anna Gelpern ha evidenziato come l'evoluzione dei mercati finanziari globali abbia reso sempre più complessa la ristrutturazione del debito sovrano, con l'emergere di nuovi attori come i fondi "avvoltoio" e strumenti finanziari sempre più sofisticati. Il dibattito sulla sostenibilità del debito si interseca inoltre con questioni più ampie di giustizia climatica e sviluppo sostenibile, come evidenziato dalle proposte di "debt-for-nature swaps" e altre forme innovative di ristrutturazione del debito.


L'innovazione tecnologica sta ridefinendo radicalmente i parametri della competizione economica globale, creando nuove forme di potere e vulnerabilità. La corsa all'intelligenza artificiale, analizzata da Kai-Fu Lee, sta emergendo come un nuovo terreno di competizione geopolitica, con implicazioni profonde per la distribuzione globale del potere economico. Susan Strange aveva già anticipato come il controllo della conoscenza e della tecnologia sarebbe diventato una fonte cruciale di potere strutturale nell'economia globale. L'emergere di quello che alcuni analisti hanno definito "surveillance capitalism" (Shoshana Zuboff) o "platform capitalism" (Nick Srnicek) sta creando nuove forme di concentrazione economica che sfidano i tradizionali strumenti di regolamentazione. La competizione per il controllo delle tecnologie critiche, come i semiconduttori e il 5G, evidenzia l'intersezione sempre più stretta tra sicurezza nazionale e governance economica. Dan Breznitz ha analizzato come diverse strategie nazionali di innovazione stiano plasmando la geografia globale dell'innovazione tecnologica, mentre Mariana Mazzucato ha sottolineato il ruolo cruciale dello stato nell'orientare e sostenere l'innovazione tecnologica.


La transizione energetica rappresenta una sfida trasformativa per la governance economica globale che va ben oltre le questioni puramente ambientali. Nicholas Stern ha aggiornato la sua analisi originale sottolineando come la transizione energetica rappresenti non solo una necessità climatica ma anche un'opportunità di ridefinizione dell'ordine economico globale. Le tensioni tra paesi sviluppati e in via di sviluppo sulla "giusta transizione" evidenziano le profonde disuguaglianze incorporate nel sistema energetico globale. Il lavoro di Andreas Malm sulla "fossil capital" ha mostrato come le strutture di potere esistenti nell'economia globale siano profondamente intrecciate con il sistema energetico fossile. La questione del "carbon border adjustment" dell'UE evidenzia le tensioni tra politiche climatiche ambiziose e regole commerciali internazionali, come analizzato da William Nordhaus. Joseph Stiglitz e Nicholas Stern hanno proposto un ripensamento fondamentale delle istituzioni finanziarie internazionali per supportare la transizione verde, mentre Mariana Mazzucato ha enfatizzato la necessità di una politica industriale verde coordinata a livello internazionale. La geopolitica dell'energia rinnovabile, analizzata da Daniel Yergin, sta emergendo come un nuovo terreno di competizione internazionale, ridisegnando le mappe del potere economico globale.


La questione della migrazione economica rappresenta un punto di intersezione cruciale tra governance economica globale e politiche nazionali. Dani Rodrik ha evidenziato come la mobilità del lavoro rimanga il grande "tabù" della globalizzazione, con barriere alla migrazione che generano perdite di efficienza globale molto maggiori di quelle causate dalle barriere al commercio o ai flussi di capitale. Il lavoro di Branko Milanović sulla disuguaglianza globale ha mostrato come la "citizenship premium" - il vantaggio economico derivante dall'essere nati in un paese ricco - rimanga il principale determinante del reddito individuale a livello globale. Michael Clemens ha quantificato gli enormi guadagni potenziali dalla liberalizzazione della mobilità del lavoro, mentre Jennifer Gordon ha analizzato le tensioni tra diritti dei lavoratori e regimi migratori temporanei. La pandemia ha evidenziato la dipendenza delle economie avanzate dal lavoro migrante in settori essenziali, mentre il cambiamento climatico sta emergendo come un nuovo driver di migrazione forzata, come analizzato da Robert McLeman. La governance della migrazione economica rimane frammentata tra regimi nazionali, accordi bilaterali e deboli framework multilaterali, riflettendo le profonde tensioni politiche attorno a questo tema.


La resilienza dei sistemi economici è emersa come una priorità chiave nella governance economica globale, particolarmente dopo le crisi del XXI secolo. Andrew Zolli e Ann Marie Healy hanno analizzato come la ricerca della pura efficienza economica abbia spesso compromesso la resilienza sistemica. Il concetto di "antifragility" sviluppato da Nassim Nicholas Taleb offre spunti importanti per ripensare la governance economica in termini di robustezza e adattabilità piuttosto che ottimizzazione statica. La pandemia ha accelerato il ripensamento delle catene del valore globali, con quello che Richard Baldwin ha definito come un movimento da "just-in-time" a "just-in-case". Xavier Gabaix ha analizzato come shock apparentemente localizzati possano propagarsi attraverso le reti economiche globali generando effetti sistemici, mentre Daron Acemoglu ha studiato come la struttura delle reti di produzione influenzi la resilienza macroeconomica. Il dibattito sulla "strategic autonomy" nell'UE e sulla "economic security" negli USA riflette una crescente attenzione alla resilienza delle catene di approvvigionamento critiche.

Il ruolo delle città globali nella governance economica è diventato sempre più centrale, come evidenziato dal lavoro pionieristico di Saskia Sassen. Le metropoli globali fungono da nodi cruciali nelle reti transnazionali di produzione, finanza e innovazione, sviluppando spesso forme di governance economica parallele e talvolta in competizione con gli stati nazionali. Il lavoro di Peter Taylor sulla "world city network" ha mappato queste relazioni transnazionali, mentre Neil Brenner ha analizzato come l'urbanizzazione planetaria stia ridefinendo le scale della governance economica. Le città sono emerse come attori chiave nella governance climatica globale, come evidenziato dal C40 Cities Climate Leadership Group. Benjamin Barber ha argomentato che le città potrebbero offrire soluzioni più pragmatiche ed efficaci alle sfide globali rispetto agli stati nazionali, mentre Richard Florida ha analizzato come la competizione tra città globali stia plasmando la geografia dell'innovazione e della crescita economica.


Nella parte conclusiva del suo monumentale "The Economic Government of the World: 1933-2023", Martin Daunton offre una riflessione profonda e articolata sul futuro della governance economica globale che merita particolare attenzione. La sua analisi si distingue non solo per la lucidità con cui diagnostica la crisi del paradigma neoliberista, ma soprattutto per la sua capacità di delineare possibili vie d'uscita dall'attuale impasse della governance globale.


Il punto di partenza della sua riflessione è la crisi finanziaria del 2008, che Daunton interpreta non come un semplice fallimento regolamentare, ma come il sintomo di contraddizioni più profonde nel modello di governance economica globale emerso dopo la fine di Bretton Woods. Questa crisi, secondo l'autore, ha segnato la fine definitiva dell'illusione neoliberista secondo cui i mercati deregolamentati sarebbero stati in grado di autoregolarsi efficacemente. La risposta alla crisi, caratterizzata da un ritorno massiccio dell'intervento statale nell'economia, ha evidenziato i limiti del dogma del "mercato che si autoregola" e ha aperto la strada a un ripensamento fondamentale del ruolo delle istituzioni pubbliche nell'economia globale.


È in questo contesto che emerge il concetto chiave di "multilateralismo disordinato", che rappresenta il contributo più originale di Daunton al dibattito sul futuro della governance economica globale. Questo concetto non è una semplice descrizione dello stato attuale delle relazioni economiche internazionali, ma rappresenta un tentativo di teorizzare un nuovo approccio alla governance globale che sia più flessibile, inclusivo e resiliente rispetto sia al rigido sistema di Bretton Woods che al laissez-faire neoliberista.


Il multilateralismo disordinato di Daunton riconosce innanzitutto la natura sempre più policentrica del potere economico globale. L'ascesa della Cina e di altre economie emergenti ha reso definitivamente obsoleto il modello di governance centrato sull'Occidente che ha caratterizzato il XX secolo. Il nuovo ordine emergente deve necessariamente essere più pluralistico, capace di accogliere diverse visioni dello sviluppo economico e diverse forme di organizzazione dei rapporti tra stato e mercato.


Particolarmente significativa è l'analisi che Daunton fa della sfida climatica, che viene vista come il banco di prova cruciale per il futuro della governance economica globale. La crisi climatica, secondo l'autore, richiede un ripensamento radicale non solo dei modelli di sviluppo economico, ma anche delle forme stesse della cooperazione internazionale. Le istituzioni esistenti, progettate per un mondo dominato dalle questioni commerciali e finanziarie, si rivelano inadeguate di fronte a una sfida che richiede una trasformazione fondamentale dei sistemi produttivi ed energetici a livello globale.


La rivoluzione digitale rappresenta un'altra sfida fondamentale analizzata da Daunton. L'emergere delle piattaforme tecnologiche come nuovi centri di potere economico, la questione della governance dei dati e dell'intelligenza artificiale, e più in generale la trasformazione digitale dell'economia globale richiedono nuovi approcci alla regolamentazione che vadano oltre i tradizionali strumenti del diritto commerciale e della politica della concorrenza.


Un tema centrale nell'analisi di Daunton è la relazione sempre più tesa tra globalizzazione economica e legittimità democratica. L'aumento delle disuguaglianze, sia tra paesi che all'interno dei singoli paesi, minaccia la sostenibilità politica della globalizzazione e richiede un nuovo contratto sociale che sia capace di bilanciare più efficacemente le esigenze dell'efficienza economica con quelle dell'equità sociale.

Le conclusioni di Daunton sono caratterizzate da un cauto ottimismo. Mentre riconosce le enormi sfide che il sistema di governance economica globale deve affrontare, vede anche opportunità per costruire un ordine economico internazionale più equo e sostenibile. Il multilateralismo disordinato che lui propone non è un sistema perfetto, ma rappresenta un tentativo pragmatico di gestire le tensioni inevitabili tra cooperazione internazionale e autonomia nazionale, tra efficienza economica e giustizia sociale, tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale.

In ultima analisi, il contributo più significativo di Daunton sta nella sua capacità di mostrare come la storia della governance economica globale sia sempre stata caratterizzata da tensioni tra forze contrastanti, e come la chiave per il futuro sia trovare modi creativi di gestire queste tensioni piuttosto che cercare di eliminarle completamente. Il suo lavoro ci ricorda che le istituzioni economiche sono costruzioni umane che possono e devono essere ridisegnate per rispondere alle sfide del nostro tempo, e che la ricerca di un ordine economico più giusto e sostenibile, per quanto difficile, rimane un obiettivo imprescindibile per il XXI secolo.


Il "multilateralismo disordinato" proposto da Daunton non è quindi solo un concetto analitico, ma rappresenta una vera e propria agenda per il futuro: un invito a ripensare la governance economica globale in termini più flessibili e inclusivi, capaci di accogliere la diversità dei modelli di sviluppo e di rispondere alle sfide globali del nostro tempo, dalla crisi climatica alla rivoluzione digitale, dalla crescita delle disuguaglianze all'emergere di nuovi centri di potere economico. È una visione che, pur riconoscendo la complessità e le contraddizioni del mondo contemporaneo, non rinuncia all'ambizione di costruire un ordine economico internazionale più equo e sostenibile.


La visione di Daunton del "multilateralismo disordinato" ha implicazioni profonde per il modo in cui pensiamo e pratichiamo la governance economica globale. Nel mondo post-pandemia, caratterizzato da crescenti tensioni geopolitiche e sfide sistemiche, le sue intuizioni assumono particolare rilevanza. La transizione verso questo nuovo modello di governance non sarà né semplice né lineare, ma richiederà un ripensamento fondamentale delle istituzioni e delle pratiche esistenti.


Un aspetto cruciale di questa transizione riguarda la riforma delle istituzioni multilaterali. Le organizzazioni nate da Bretton Woods - il FMI, la Banca Mondiale, e più tardi l'OMC - devono evolversi per riflettere la nuova realtà multipolare dell'economia globale. Non si tratta semplicemente di ribilanciare le quote di voto o di aumentare la rappresentanza dei paesi emergenti, ma di ripensare fondamentalmente la missione e i metodi operativi di queste istituzioni. Il "multilateralismo disordinato" di Daunton suggerisce la necessità di un approccio più flessibile e differenziato, che riconosca la legittimità di diversi percorsi di sviluppo e diverse forme di organizzazione economica.


La sfida climatica, in particolare, richiede un ripensamento radicale dei modelli di sviluppo economico. Daunton sottolinea come la transizione verde non possa essere gestita attraverso i soli meccanismi di mercato, ma richieda una combinazione di politiche pubbliche coordinate a livello internazionale, innovazione tecnologica e mobilitazione di risorse su scala globale. La sua analisi suggerisce la necessità di nuove forme di cooperazione internazionale che vadano oltre la logica del "minimo comune denominatore" che ha spesso caratterizzato i negoziati climatici.


La rivoluzione digitale rappresenta un'altra area dove le intuizioni di Daunton risultano particolarmente rilevanti. L'emergere di giganti tecnologici globali, la crescente importanza dei flussi di dati transfrontalieri e le sfide poste dall'intelligenza artificiale richiedono nuove forme di governance che bilancino innovazione e regolamentazione, efficienza e protezione dei diritti individuali. Il "multilateralismo disordinato" suggerisce la possibilità di approcci differenziati alla regolamentazione digitale che rispettino le diverse sensibilità nazionali pur mantenendo un quadro di cooperazione internazionale.


La questione della disuguaglianza, sia tra paesi che all'interno dei singoli paesi, emerge come una sfida centrale per il futuro della governance economica globale. Daunton suggerisce che la sostenibilità politica della globalizzazione dipenderà dalla capacità di costruire un nuovo contratto sociale che distribuisca più equamente i benefici dell'integrazione economica. Questo richiederà non solo politiche redistributive a livello nazionale, ma anche riforme del sistema commerciale e finanziario internazionale per ridurre le asimmetrie strutturali dell'economia globale.


Il contributo più significativo di Daunton sta forse nella sua capacità di offrire una visione della governance economica globale che è al tempo stesso realistica e aspirazionale. Realistica perché riconosce i vincoli politici e istituzionali che limitano le possibilità di riforma radicale del sistema esistente. Aspirazionale perché non rinuncia all'ambizione di costruire un ordine economico internazionale più equo, sostenibile e democratico.


In conclusione, "The Economic Government of the World" non è solo una storia della governance economica globale, ma un invito a ripensare fondamentalmente il modo in cui organizziamo l'economia mondiale nel XXI secolo. Il "multilateralismo disordinato" proposto da Daunton offre un framework concettuale prezioso per navigare le sfide del nostro tempo: dalla crisi climatica alla rivoluzione digitale, dalla crescita delle disuguaglianze all'emergere di nuovi centri di potere economico.


La lezione fondamentale che emerge dal lavoro di Daunton è che la governance economica globale non è un sistema fisso e immutabile, ma una costruzione sociale che può e deve essere ridisegnata per rispondere alle sfide del nostro tempo. Il futuro dell'economia globale dipenderà dalla nostra capacità di immaginare e implementare nuove forme di cooperazione internazionale che bilancino le esigenze contrastanti di efficienza e equità, crescita e sostenibilità, integrazione globale e autonomia nazionale. Il "multilateralismo disordinato" di Daunton ci offre non una soluzione definitiva, ma una bussola preziosa per orientarci in questa complessa transizione verso un nuovo ordine economico globale.





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