L'andamento della crescita del PIL pro capite 1996-2019 rappresenta la più inequivocabile evidenza empirica del fallimento del progetto dell'euro e delle politiche economiche neoliberiste imposte all'Italia negli ultimi decenni.
La scelta del 1996 come anno di riferimento per una analisi accurata non è casuale: rappresenta il momento in cui l'Italia ha iniziato il suo percorso di avvicinamento alla moneta unica, accettando vincoli sempre più stringenti alla propria sovranità monetaria e fiscale. Giovanni Dosi, nel suo influente "Sources, Procedures, and Microeconomic Effects of Innovation" (Journal of Economic Literature, 1988), aveva già messo in guardia sui rischi di un'integrazione economica basata esclusivamente su parametri monetari e fiscali, sottolineando come le politiche di innovazione e sviluppo industriale richiedessero un ruolo attivo dello Stato, in netta contrapposizione con l'approccio monetarista poi adottato nell'eurozona. La sua analisi dei processi di innovazione e cambiamento tecnologico evidenziava come la competitività di un sistema economico non potesse ridursi a meri parametri di costo, ma richiedesse politiche industriali attive e investimenti strategici di lungo periodo.
La distruzione del tessuto produttivo
Luciano Gallino, nel suo fondamentale "La scomparsa dell'Italia industriale" (Einaudi, 2003), aveva previsto con straordinaria lucidità gli effetti devastanti della deindustrializzazione indotta dalle politiche di austerità e dal cambio fisso. La sua analisi non si limitava a evidenziare gli effetti immediati della perdita di capacità produttiva, ma si estendeva alle conseguenze sociali e culturali della dissoluzione dei distretti industriali e delle filiere produttive che avevano caratterizzato il miracolo economico italiano. Il dato del grafico non fa che confermare quanto la perdita di sovranità monetaria e l'imposizione di politiche restrittive abbiano accelerato questo processo di declino industriale. La drastica riduzione degli investimenti pubblici, combinata con l'impossibilità di utilizzare la leva del cambio per mantenere la competitività, ha portato a una progressiva erosione delle capacità produttive nazionali, con effetti particolarmente devastanti sul tessuto delle piccole e medie imprese che costituivano la spina dorsale dell'economia italiana.
La trappola dell'euro
La questione monetaria assume un ruolo centrale in questa analisi. Come sottolineato da Augusto Graziani nel suo profetico "La moneta competitiva" (Il Mulino, 1995), l'ingresso nell'euro ha privato l'Italia degli strumenti di politica monetaria necessari per gestire gli shock asimmetrici e mantenere la competitività del sistema produttivo. Graziani aveva compreso, con anticipo straordinario, come l'unione monetaria, in assenza di meccanismi di compensazione fiscale e di una vera politica industriale europea, avrebbe accentuato gli squilibri strutturali tra le economie dei paesi membri. Emiliano Brancaccio, in numerosi quoi scritti più recenti ha successivamente dimostrato come questo assetto istituzionale abbia portato a una progressiva "germanizzazione" dell'economia europea, con l'imposizione di un modello export-led che favorisce strutturalmente le economie del centro a scapito di quelle periferiche. La sua analisi evidenzia come le politiche deflazioniste, imposte come ricetta universale, abbiano in realtà contribuito ad ampliare i divari di competitività all'interno dell'eurozona.
Le radici profonde della stagnazione
L'analisi comparata offerta dal grafico AMECO rivela una realtà ancora più inquietante: l'Italia ha performato peggio persino della Grecia, paese che ha attraversato una delle più drammatiche crisi economiche della storia recente. Questo dato demolisce la narrativa secondo cui la stagnazione italiana sarebbe il risultato di presunte inefficienze strutturali o della mancanza di "riforme". La realtà è che il declino italiano è direttamente collegato all'architettura dell'unione monetaria e alle politiche deflazioniste che ne sono conseguite. La combinazione di un cambio fisso, politiche fiscali restrittive e l'impossibilità di attuare politiche industriali attive ha creato una "tempesta perfetta" che ha progressivamente eroso la base produttiva del paese. Il confronto con gli altri paesi europei mostra chiaramente come questa non sia una tendenza generale, ma il risultato specifico delle politiche adottate e della particolare vulnerabilità dell'economia italiana all'assetto istituzionale dell'eurozona.
Le conseguenze sociali e il declino sistemico
Gli effetti di questa lunga stagnazione non si sono limitati alla sfera economica, ma hanno profondamente alterato il tessuto sociale del paese. La crescente polarizzazione sociale e l'aumento delle disuguaglianze hanno minato la coesione sociale e ridotto la mobilità intergenerazionale. L'emigrazione massiccia dei giovani qualificati, fenomeno che ha assunto dimensioni drammatiche nell'ultimo decennio, rappresenta non solo una perdita di capitale umano, ma un vero e proprio "brain drain" che compromette le prospettive di sviluppo future. Il deterioramento del sistema industriale ha portato alla perdita di competenze e know-how accumulati in decenni di sviluppo industriale, mentre il crollo degli investimenti pubblici e privati ha compromesso la capacità del paese di innovare e competere nei settori ad alto valore aggiunto. Questa spirale negativa si autoalimenta: la mancanza di prospettive spinge i giovani più qualificati a emigrare, riducendo ulteriormente il potenziale di innovazione e crescita del paese.
Conclusioni: verso un necessario ripensamento
Il dati dell'economia italiana negli ultimi 30 anni dovrebbero essere letti come qualcosa di più di un semplice indicatore economico: rappresenta la testimonianza del fallimento di un intero modello di integrazione europea e delle politiche economiche che lo hanno accompagnato. La narrazione delle "riforme mancate" si rivela per quello che è: un tentativo di mascherare le responsabilità di scelte politiche ed economiche che hanno subordinato l'economia italiana agli interessi del capitale finanziario europeo. La verità è che il "disastro" italiano non è il risultato di una mancanza di riforme, ma di riforme sbagliate, imposte da una classe dirigente incapace di difendere gli interessi nazionali e subalterna a un'ideologia economica che ha dimostrato tutti i suoi limiti. Solo un ripensamento radicale delle politiche monetarie e industriali, accompagnato da una profonda rinegoziazione dei trattati europei, può offrire una via d'uscita dalla stagnazione. In assenza di tali cambiamenti, il declino dell'economia italiana rischia di diventare non solo irreversibile, ma di trasformarsi in una vera e propria regressione sociale e civile. È tempo di riconoscere che l'attuale assetto dell'eurozona non è compatibile con lo sviluppo equilibrato delle economie periferiche e che solo una sua profonda riforma - o in alternativa una sua messa in discussione - può aprire la strada a una vera ripresa dell'economia italiana.