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La Grande Riconfigurazione: come i dazi stanno ridisegnando l'economia mondiale

Writer's picture: GiandoGiando

La campagna elettorale americana sta portando alla ribalta una questione che potrebbe ridefinire gli equilibri economici mondiali nei prossimi anni. Si parla di dazi, ma non dei soliti dazi a cui eravamo abituati. Questa volta la proposta è molto più ambiziosa e potenzialmente dirompente: dazi su tutto, ovunque, con un'intensità senza precedenti dal secolo scorso.



Per capire la portata rivoluzionaria di questa proposta, dobbiamo fare un passo indietro. Tradizionalmente, i dazi erano strumenti chirurgici di politica economica. Un governo voleva proteggere i produttori nazionali di acciaio? Imponeva dazi sull'importazione di acciaio. I viticoltori locali soffrivano la concorrenza estera? Ecco arrivare dazi sul vino importato. Era un gioco relativamente semplice, con regole chiare e impatti prevedibili.


Oggi lo scenario è completamente diverso. La proposta sul tavolo prevede un dazio del 10% su qualsiasi cosa entri negli Stati Uniti, che sale al 60% per tutto ciò che proviene dalla Cina. Gli economisti di Barclays hanno fatto i conti: questo potrebbe tradursi in un aumento medio dei prezzi al consumo negli USA del 17%. Per dare un'idea della magnitudine, i dazi imposti nel 2017-2018 avevano causato un aumento dei prezzi di appena il 2%.


Ma l'aspetto più interessante non è tanto l'impatto sui prezzi, quanto le possibili reazioni a catena nell'economia globale. Per comprenderle, dobbiamo guardare a come funziona il mondo oggi. Dal 1976 al 2016, l'economia globale ha operato come un sistema solare con due soli: Stati Uniti e Cina. Un sistema perfettamente bilanciato in cui la Cina esportava beni negli USA, riceveva dollari in pagamento e li reinvestiva in titoli del tesoro americano. Gli altri paesi orbitavano attorno a questi due centri gravitazionali, trovando il proprio spazio nell'ordine economico mondiale.


La storia ci offre un precedente interessante per capire come potrebbero evolversi le cose. Negli anni '70 e '80, quando gli USA imposero dazi sulle auto giapponesi, i produttori nipponici reagirono in modo creativo: invece di arrendersi, spostarono la produzione di componenti negli Stati Uniti, creando impianti di assemblaggio locale. Fu una mossa che rivoluzionò il concetto stesso di produzione globale.


Oggi, la Cina sta già dimostrando una notevole capacità di adattamento. Un dato spesso trascurato è che solo un terzo delle esportazioni cinesi va verso USA ed Europa. I restanti due terzi sono diretti verso il resto del mondo, una proporzione che è aumentata significativamente dopo le tensioni commerciali del 2017. La Cina, in altre parole, ha già un piano B ben rodato. Ma la vera novità degli ultimi anni è stata l'emergere dei cosiddetti "paesi connettori". Nazioni come Singapore, Vietnam, Irlanda, Ungheria e Messico stanno diventando sempre più cruciali come ponti tra diverse regioni economiche. La Cina, anticipando il ritorno di politiche protezionistiche americane, ha già intensificato i suoi investimenti in questi paesi: dalle fabbriche di automobili in Messico agli impianti di batterie in Ungheria.

In questo contesto si inserisce anche il recente tentativo dell'Unione Europea di finalizzare un accordo commerciale con il Mercosur, il blocco economico sudamericano che include Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay. Dopo oltre vent'anni di negoziati, l'UE sta cercando di accelerare la conclusione dell'accordo, spinta anche dall'urgenza di diversificare le proprie relazioni commerciali in vista delle imminenti politiche protezionistiche americane. Tuttavia, le resistenze interne, particolare da parte del settore agricolo europeo e le preoccupazioni ambientali legate alla deforestazione amazzonica, continuano a complicare il raggiungimento di un'intesa definitiva. Questo stallo evidenzia quanto sia complesso costruire nuove alleanze commerciali in un mondo sempre più frammentato e polarizzato.

Questa non è una semplice strategia di aggiramento dei dazi, ma una riconfigurazione profonda delle catene produttive globali. Ed è probabile che con l'entrata in vigore delle nuove misure protezionistiche, questo processo si intensifichi ulteriormente. Le imprese cinesi potrebbero accelerare il trasferimento di parti della loro produzione in questi paesi "connettori", creando nuove rotte commerciali e nuove alleanze economiche, mentre l'Europa potrebbe trovare nei mercati emergenti sudamericani un'alternativa parziale al mercato statunitense.

Quello che stiamo vedendo non è quindi un semplice ritorno al protezionismo pre-bellico, ma l'emergere di un nuovo ordine economico mondiale più complesso e articolato. Invece di un sistema bipolare USA-Cina, potremmo assistere alla nascita di un network di regioni economiche interconnesse, dove i "paesi connettori" giocano un ruolo fondamentale nel mantenere vivi i benefici della globalizzazione, pur in un contesto di maggiore frammentazione.


È un futuro che nessuno aveva previsto nei manuali di economia. I dazi, da semplice strumento di protezione commerciale, stanno diventando il catalizzatore di una trasformazione profonda dell'economia globale. Le imprese si adattano, i flussi commerciali si riorganizzano, nuovi attori emergono. È la dimostrazione che l'economia globale, come un organismo vivente, trova sempre nuove vie per evolversi e prosperare, anche di fronte alle sfide più impegnative.


In questo scenario in rapida evoluzione, la vera domanda non è più se la globalizzazione sopravviverà, ma in quale forma. La risposta sembra essere: più complessa, più articolata, più resiliente. Un sistema dove la connettività non dipende più solo da due grandi poli, ma da una rete di relazioni economiche che si adatta e si rimodella continuamente. È una trasformazione che potrebbe riscrivere le regole del commercio internazionale per le generazioni a venire.

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