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Le proteste in Serbia e il rischio di un ritorno alla dittatura: un'analisi del presente e del passato

Nelle ultime settimane, la Serbia è teatro di una delle più imponenti mobilitazioni popolari della sua storia recente. Migliaia di cittadini, guidati principalmente da studenti universitari, sono scesi in piazza per chiedere giustizia e responsabilità, dopo che lavori pubblici mal eseguiti e la corruzione dilagante sono stati alla base di un tragico incidente che ha provocato la morte di 15 persone lo scorso novembre. Le proteste, inizialmente spontanee e focalizzate su temi concreti come la trasparenza e la fine della corruzione, si sono rapidamente estese, coinvolgendo ampie fasce della borghesia urbana, sindacati e persino alcuni agricoltori.

Il governo del presidente Aleksandar Vučić, tuttavia, continua a mantenere il controllo del potere, forte dei risultati delle ultime tornate elettorali che lo hanno visto prevalere con ampio margine. Questo, nonostante il malcontento diffuso e la disillusione nei confronti del sistema politico serbo nel suo complesso.


La lettura di Branko Milanovic: un ciclo che si ripete

Per comprendere più a fondo la natura di questa crisi e le sue potenziali derive, è illuminante la riflessione di Branko Milanovic, noto economista serbo, che offre una chiave di lettura storica e strutturale della situazione. Milanovic descrive la Serbia come un paese dalla "storia circolare", prigioniero di dinamiche che si ripetono ciclicamente: un leader autoritario che si regge su un sistema clientelare e profondamente corrotto. “Nel 1825 e nel 1925 la Serbia era governata esattamente nella stessa maniera di oggi,” scrive Milanovic, sottolineando come la combinazione di autoritarismo e corruzione abbia caratterizzato il Paese per oltre due secoli.

Le attuali proteste, secondo Milanovic, si inseriscono perfettamente in questo schema. Sebbene il movimento studentesco sia nato con istanze legittime e condivisibili, esso ha scelto consapevolmente di rimanere apolitico e di rifiutare qualsiasi legame con i partiti politici esistenti, considerati anch'essi parte di quel sistema clientelare che si vuole combattere. Nessuna bandiera, nessun leader visibile, nessuna piattaforma politica strutturata: solo assemblee, votazioni dirette e comunicati senza firma. Questo approccio “antipolitico” ha permesso alla protesta di espandersi e di attrarre fasce trasversali della popolazione, ma rappresenta, per Milanovic, un’arma a doppio taglio.

“Un movimento apolitico con ampie basi porta in ultima analisi a due risultati: la dittatura o il caos,” afferma l’economista, evidenziando come l’assenza di una struttura organizzativa e di interlocutori riconoscibili renda il movimento incapace di ottenere risultati politici concreti. La mancata transizione verso una forma politica formale impedisce infatti al movimento di negoziare con le istituzioni e di proporre un reale cambiamento.

Il rischio di un'escalation autoritaria

Milanovic traccia un parallelo con quanto avvenne nel 1929, quando il Re Alessandro I mise al bando tutte le attività politiche e instaurò una dittatura personale per sedare le tensioni sociali. Secondo lui, lo scenario odierno potrebbe evolversi in modo simile: la crescente destabilizzazione potrebbe indurre Vučić a irrigidire ulteriormente il regime, scivolando verso una dittatura conclamata.

Nel breve e medio termine, quindi, le prospettive politiche del movimento sono cupe. Anche se alcune delle istanze sollevate – come la richiesta di maggiore giustizia sociale e trasparenza – potrebbero lasciare un segno culturale duraturo, il rischio è che sul piano istituzionale la protesta finisca per rafforzare esattamente ciò che intende combattere: un potere autoritario sempre meno disposto a tollerare voci dissidenti.

Conclusione

Le proteste in Serbia rappresentano una fotografia nitida delle contraddizioni che attraversano il Paese da secoli: una società stanca della corruzione e dell'autoritarismo, ma priva di strumenti politici efficaci per superare questo stato di cose. La lettura di Milanovic ci invita a riflettere non solo sulla situazione serba, ma anche su un dilemma più ampio: come si può trasformare un legittimo malcontento popolare in un reale cambiamento politico, senza cadere nella trappola del caos o della repressione?

 
 

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