Non sono guerre commerciali. Quello che non dicono sull’economia globale
- Giando
- Mar 21
- 3 min read
Negli ultimi mesi, l’aria si è fatta elettrica. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, ha rilasciato una delle sue perle: l’Unione Europea sarebbe stata "creata per fregare gli Stati Uniti". Boom. Poco dopo, un dazio del 25% sui beni europei – auto tedesche in testa – ha riportato indietro l’orologio al tempo delle guerre tariffarie. E Bruxelles? Ha risposto promettendo ritorsioni da 26 miliardi di euro, salvo poi guadagnare tempo. Ma facciamo attenzione: non stiamo assistendo semplicemente a una scaramuccia tra superpotenze. C’è molto di più sotto la superficie. Queste "guerre commerciali" sono, in realtà, la versione globale di un vecchio scontro che conosciamo bene: una guerra di classe.

Guardiamoci intorno. Da un lato, economie esportatrici come la Germania, la Cina, e in misura minore l’Italia. Dall’altro, i grandi consumatori a debito, Stati Uniti in primis. Perché? Perché in troppe economie i salari vengono compressi per tenere basso il costo del lavoro, mentre la produzione cresce e si accumula nelle mani di pochi. La ricchezza si concentra, la domanda interna non decolla, e allora si cerca sbocco fuori dai confini. Le guerre commerciali, così, diventano il sintomo esterno di una malattia interna: la sproporzione di potere e reddito tra classi sociali.
E chi meglio dell’Italia può testimoniare questo meccanismo?
Proprio pochi giorni fa, Mario Draghi, mai incline a frasi ad effetto, ha sganciato una verità pesantissima in Parlamento:
"Negli ultimi vent’anni, a causa dell’euro, abbiamo dovuto comprimere i salari e quindi ridurre il tenore di vita degli italiani per competere con Francia e Germania."
Un’ammissione chiara: il nostro modello competitivo si è basato sul sacrificio del potere d’acquisto dei lavoratori. E non siamo certo soli. La Germania, per anni, ha adottato una politica di moderazione salariale (ricordate l'Agenda 2010 di Schröder?), puntando tutto sull’export. La Cina, dal canto suo, ha fatto del risparmio forzato della popolazione un pilastro per finanziare investimenti e vendere all’estero. Il risultato? Una gigantesca produzione di surplus che deve trovare sfogo, e che spesso finisce per destabilizzare i paesi importatori… guarda caso, gli stessi che oggi rispondono con tariffe e muri doganali.
Il ritorno di Trump al protezionismo non è solo teatro. È la reazione politica inevitabile quando un paese come gli USA si ritrova con una classe lavoratrice impoverita, posti di lavoro persi, e una bilancia commerciale cronicamente negativa. Non perché "gli americani comprano troppo", ma perché qualcun altro comprime la domanda interna per esportare il proprio surplus.
E qui l'UE si trova in trappola. Se Bruxelles risponde con dazi, rischia di auto-infliggersi un danno, visto che anche la crescita europea dipende fortemente dalle esportazioni. Se invece cede, alimenta il malcontento interno, già esplosivo in molti paesi membri. Intanto, i salari europei restano al palo, e l'Italia – come Draghi ha confessato – ha accettato di competere verso il basso, sacrificando il benessere della propria popolazione pur di restare agganciata al treno tedesco e francese.
Ecco il punto: le guerre commerciali non si vincono con le tariffe. Sono solo la superficie di una crisi più profonda, in cui il conflitto tra classi sociali si proietta su scala globale. Le élite accumulano, i salari stagnano, la domanda interna viene tenuta sotto controllo… e tutto questo squilibrio si scarica nei rapporti internazionali.
Se vogliamo davvero uscire da questo cortocircuito, servono politiche che facciano esplodere il consumo interno nei paesi esportatori, che ridistribuiscano ricchezza e potere contrattuale. Non muri, ma più salario e meno rendita. Non austerità, ma investimenti e diritti per chi lavora.
Perché sì, i dazi fanno rumore. Ma la vera guerra si combatte quotidianamente, nelle buste paga troppo leggere e nei risparmi accumulati da pochi. È lì che si decide il futuro, non nei tweet di Trump o nei comunicati di Bruxelles.