Lo scorso 12 ottobre, Greta Thunberg ha visitato l’ex fabbrica della GKN di Campi Bisenzio, dopo aver partecipato alla manifestazione pro-Palestina di Milano. Questo evento non ci interessa tanto nella sua individualità, quanto piuttosto come sintomo di un’alleanza che fatica ad essere recepita come reale e ben fondata da realtà mediatiche non direttamente coinvolte. Si tratta, infatti, dell’alleanza – ormai da tempo stretta – tra i nuovi movimenti ambientalisti e le lotte sociali. Le ragioni per cui si fatica a cogliere la continuità tra le istanze di giustizia sociale e quelle di giustizia ambientale sono molteplici, ma possono essere ricondotte a una questione: il frainteso accento messo sulla questione climatica. Da una parte, infatti, le élites europeiste e i media al loro seguito hanno potuto percepire le istanze dei nuovi movimenti ambientalisti – con questa espressione intendiamo i movimenti nati in seguito ai primi Climate Strikes del 2018 e 2019 – come sostanzialmente continue alla propria idea di “transizione verde”. Dall’altra, le realtà tradizionalmente legate alla giustizia sociale (comunisti e socialisti, principalmente), hanno visto nei nuovi movimenti ambientalisti l’espressione di una gioventù sradicata, ubriaca del ribellismo mercatista venduto dalle serie tv americane e sostanzialmente ignara dei processi storici, nonché figlia del ceto medio soddisfatto e annoiato, che trova nelle finte lotte che non intaccano i reali rapporti di potere, un punto d’appoggio per sentire di “star partecipando alla vita politica” e “stare dalla parte giusta” contro il lavoratore medio che ignora la bontà di queste battaglie universaliste.
L’errore comune sotteso a questo duplice fraintendimento dei movimenti è, come abbiamo accennato, l’aver sottolineato troppo il ruolo del clima in queste battaglie. La questione climatica è, per sua essenza, difficilmente afferrabile: il clima, infatti, è il sistema complesso per eccellenza e una delle caratteristiche principali dei sistemi complessi è la difficoltà a stabilire un collegamento diretto tra cause ed effetti. In luogo del più tradizionale principio di causalità entrano in gioco concetti come quello di non-linearità e di meccanismi di feedback. Ciò non toglie, tuttavia, che siano possibili analisi accurate e fondate: queste, semplicemente, si adattano alla natura della cosa che studiano. Non si può studiare il clima come si studia un urto tra due palline, occorre adattarsi alla sua natura di sistema complesso. Pertanto, solo a patto di far così si possono individuare cause e fare previsioni, queste tuttavia non avranno la durezza di un dato deterministico. Come si vede, questa situazione è particolarmente foriera di fraintendimenti: anzitutto, le élite globaliste hanno potuto vedere in ciò una nuova opportunità di business, hanno pensato cioè che il governo del clima potesse essere affrontato tramite quell’ambito dell’azione umana altrettanto esteso sul globo quanto lo è il clima: il mercato. L’illusione è stata quella di affrontare la crisi climatica tramite meccanismi di mercato e soluzioni tecniche (elettrico, nucleare di nuova generazione, crediti di carbonio…). Tutto ciò, ovviamente, arricchito di una buona dose di malafede, che fa intendere che ci sia un effettivo piano di governo del clima, dove in realtà le élites vedono solo nuove opportunità di investimento e di crescita. Le élites hanno allora potuto dare enorme rilevanza mediatica ai nuovi movimenti ambientalisti fintantoché anch’essi appoggiavano questa visione globalista e mercatista, ma quando questi movimenti prendono distanza dalle posizioni d’élites, parallelamente, la visibilità prende distanza da questi movimenti. In secondo luogo, le realtà tradizionalmente socialiste hanno potuto attaccare i movimenti appoggiandosi alla vaghezza della lotta contro la crisi climatica, sostenendo che questa non intacca la vita reale delle persone e che si tratta di una nuova forma di emergenzialismo con cui le élites possono imporre ulteriori sacrifici e colpevolizzare le popolazioni per i loro consumi non sostenibili e le loro particolarità provinciali. Ma la lotta educa e questi movimenti hanno ben presto abbandonato l’entusiasmo green e hanno approfondito in direzione decisamente sociale la loro visione. La vicenda di Greta è, in questo senso, esemplare: i suoi scioperi della scuola davanti al parlamento svedese e i primi Climate Strikes avevano un sapore decisamente buonista, ma le sue uscite più recenti hanno dimostrato come abbia proficuamente collegato la lotta climatica alla lotta anti-coloniale (si pensi alle posizioni contro la colonizzazione energetica sia green sia fossile mostrare, ad esempio, con la sua partecipazione alla resistenza di Lutzerat in Germania) e anti-imperialista (il suo sostegno alla causa palestinese e alle lotte indigine in Sudamerica è lì a dimostrarlo). Alla base di questa evoluzione dei movimenti c’è la consapevolezza che la crisi climatica è una crisi ecologica più generale, che investe la totalità dell’ambiente abitato dagli esseri umani e li riguarda direttamente. Il cambiamento climatico è infatti solo uno dei nove limiti ambientali identificati nel 2009 da Johan Rockström che il pianeta non può superare. In questo modo, è stato possibile collegare i nuovi movimenti ambientalisti con quelli più tradizionali, storicamente impegnati nelle battaglie contro grandi opere che consumano e deturpano suolo e risorse e impattano direttamente la vita delle popolazioni locali. Tale collegamento, quindi, toglie rilevanza a quell’obiezione ricorrente (che più recentemente è comparsa a seguito delle alluvioni in Emilia-Romagna e della tempesta di Valencia) che rimprovera ai nuovi ambientalisti di occuparsi troppo di clima e non di politiche del territorio, come se questi non fossero consapevoli della necessità di piani di adattamento e di politiche non invasive o estrattiviste nei territori. L’idea – ormai ben salda all’interno dei movimenti ambientalisti – è che la crisi ecologica sia in primo luogo un problema di diseguaglianza e che chi subisce la crisi non è chi l’ha creata e, di conseguenza, la prima cosa da fare è mettere in chiaro che chi deve pagare la transizione a un modello socioeconomico non invasivo per l’ambiente non sono certo i popoli con i loro consumi insostenibili o le loro arretrate pratiche tradizionali, ma i ricchi che traggono profitti immediati dalla degradazione permanente dell’ambiente abitato. Questa è, in sintesi, la prospettiva eco-socialista. Ma – si potrebbe chiedere – se i movimenti ambientali sono andati in direzione dei movimenti sociali, è vero anche il contrario? Le forze della giustizia sociale possono abbracciare quelle per la giustizia ambientale? Questo è sicuramente più difficile, dato che le battaglie sociali hanno un carico di storia molto prezioso e fecondo, ma che rischia di recepire solo con grande difficoltà una novità assoluta nella storia dell’umanità come la crisi ecologica. Per di più, tanto nell’economia di piano sovietica, quanto nel keynesismo occidentale dei trenta gloriosi, le politiche a favore del benessere delle classi subalterne andavano a discapito della degradazione ambientale, tant’è che risulta difficile concepire delle politiche sociali disaccoppiate dalla crescita economica. Eppure, è proprio ciò che è richiesto dalle attuali condizioni: ulteriore crescita, domanda energetica, inquinamento, degradazione non sono un’opzione percorribile. Lo stato sociale in Occidente è stato proprio quello che ha permesso l’inclusione e la collaborazione delle classi lavoratrici nel modello capitalistico: il “paradigma della crescita” ha permesso al capitale di continuare la sua corsa, mentre garantiva parte dei dividendi e dei benefici ai lavoratori tramite l’assistenza sociale. In sostanza, si è potuto raggiungere un compromesso capitale-lavoro non riducendo le diseguaglianze, ma facendo crescere la torta dei benefici disponibili: il rapporto di diseguaglianza è rimasto lo stesso, ma la quantità è cresciuta. I perdenti di questo modello socialdemocratico sono stati invece i soggetti della riproduzione sociale (donne, ambiente e colonie), che venivano derubati, sfruttati e spremuti delle loro risorse. Ciò che occorre ora non è più un compromesso tra capitale e forze produttive in vista della crescita, ma un’alleanza tra forze produttive e riproduttive contro il capitale e in vista della redistribuzione e della decrescita: non aumentare la torta, ma dividere equamente le sue fette. Portare i lavoratori dalla parte della giustizia ecologica è quindi sì difficile (poiché richiede superare l’idea che solo aumentando la ricchezza estratta si può raggiungere il benessere collettivo), ma non impossibile: la vicenda della GKN lo dimostra. Ciò che abbiamo detto per Greta vale anche per il collettivo di fabbrica GKN: la lotta educa. Nello spettacolo teatrale Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto, gli operai dell’ex GKN sottolineano che durante l’occupazione «non si erano asserragliati dentro la fabbrica, ma erano usciti fuori, tessendo rapporti con altri movimenti, soprattutto ambientalisti, altri lavoratori licenziati, altre fabbriche in difficoltà». Ecco allora che a partire da un atto politico di lotta avviene un’educazione non imposta, ma vissuta – a riprova di quanto sia infondato il paternalismo delle élites illuminate nei confronti dei “lavoratori ignoranti”. Tale educazione ha portato quindi gli operai a solidarizzare con le lotte ambientali, ma anche a interrogarsi sul senso del lavoro quando pensano che «a volte basta togliere qualcosa – il lavoro – e tornano, insensati, i giochi» e che «forse non stanno lottando per lavorare, ma per ciò che in anni di lotte erano riusciti a strappare al lavoro». Questa nuova consapevolezza li ha portati da essere «quei metalmeccanici lì, metalmeccanici sessisti, con un problema di consumismo» ad essere quel collettivo che sta provando una nuova reindustrializzazione dal basso tramite la produzione autogestita di cargo-bike che – come si legge sul sito “insorgiamo.org” – «rappresenta la scommessa di una mobilitazione che in più di due anni ha resistito allo scempio industriale e alla speculazione immobiliare, che ha stretto legami sempre più forti con i movimenti ambientalisti internazionali, che si è posta come obiettivo non solo il ritorno sul territorio di quei 500 posti di lavoro, ma anche il fatto che questi dovessero servire a qualcosa di utile, bello e verde, come una cargo-bike con la lotta attorno».